La Galleria Forni e la Di Paolo arte ripropongono l’opera di Sergio Romiti (Bologna, 1928 – 2000), una tra le più importanti personalità della pittura bolognese della seconda metà del ‘900.
Ci si ritrova nel mezzo di quelle soluzioni che Giorgio Morandi pose, per non dire impose, agli artisti di quegli anni: all’ombra del nume di via Fondazza, infatti, si giocarono le sorti di tanta pittura italiana, in intrecci obbligati e mai veramente risolti, che invariabilmente ruotavano attorno al destino dell’“oggetto”.
Questione evocata dal titolo della mostra curata da Beatrice Buscaroli “Sergio Romiti: il nulla delle cose”, che cerca di legare, con leggiadria Haiku, estremi inconciliati e inconciliabili.
Il lavoro “anacoretico” di Romiti concede infatti solo indirettamente le proprie chiavi, non permettendo ad alcuna codificata poetica di afferrare le proprie ragioni; unico appiglio mai abbandonato resta l’ideale di un perfetto stile, che precluse all’autore qualsiasi compromesso.
Fin dalla presentazione di Maurizio Calvesi della mostra alla galleria d’arte moderna di Bologna nel ‘76, ricca di ardore poetico e umiltà di argomentazioni (in cui il critico giunse a recuperare, in un eccesso di zelo, per quelle tacche o macchie delicate come ali di farfalle, in cui si andavano risolvendo le “composizioni” di Romiti, addirittura il test di Rorschach), fu chiaro che l’immagine di Romiti si faceva sempre più romita, refrattaria ad ogni appiglio, tendenzialmente ab-soluta e salvata solo in estremis.
Equilibri fragili quelli che segnano le composizioni, anzi equilibrismi, virtuosismi per nulla fini a se stessi, estenuati stilisti, ma anche ricatti voluti e subiti, da leggere come sintomi nei quali, in un chiarore stagnante di luce e colore, quei presupposti legami, quei ramponi (Calvesi) trovano la loro drammatica, partecipabile verità.
Sempre Calvesi coglie perfettamente nel segno quando chiama anatomico quel tavolo, e svela la natura antropomorfa della bestia, prefigurando la carcassa-carogna nel corpo posto sotto una luce ormai chirurgica anzi obitoriale; una luce antinaturalistica, totalmente psichica, fra Baudelaire e Kafka.
Si tratta quindi di conflitto, le cui ragioni non stanno fuori dall’oggetto stesso e nemmeno nell’elaborazione formale considerata in astratto.
Mentre Morandi aveva salvato l’oggetto dotandolo di un’aura metafisico-esistenziale, Romiti non considera più l’oggetto in sè, che ormai è posto sulla tela solo come un momento del darsi del suo pensiero; pensiero non meno reiterativo di quello morandiano, visto che il termine composizione sostituisce quello di natura morta.
Ne consegue che l’oggetto non pare essere minato dal nulla, esistenziale o sociale, ma dal suo stesso svanire, dal suo divenire sempre meno accessibile, in quanto tutto vissuto, come si diceva, in chiave psichica.
Ciò che permette di afferrare in modo residuale l’oggetto è ahimè ciò che lo lega, lo trattiene, lo inibisce, vedi i ramponi.
Le “Composizioni” chiare degli anni 50 si reggono su un cubismo sottratto alla sua virtù prima, quella di operare filtri, di agevolare autonomia di scrittura.
Sono esercizi in cui Romiti non è secondo a nessuno – i capolavori non lievitano attorno a un errore, come diceva Eliot? – atti di devozione a un “ideale” incontenibile, irrinunciabile, che però tradisce un j’accuse.
Da qui il Romiti inafferrabile, che non consegna le sue chiavi e non si lascia tradurre in stabile poetica: figurativo quando costruisce la sua armonia di strie e tacche, astratto quando congela l’immagine un fotogramma.
Un misuratissimo cromatismo, comunque refrattario ad ogni pulsionale accensione, richiama lo svanire o lo “svenire” delle forme di De Staël, non certo le macellerie di Bacon, che di ganci, chiodi e costole fu vindice cantore.
Per concludere: se le immagini “velate” di Pollock ricordarono a Holloway quel momento nel quale l’occhio inizia a mettere a fuoco le forme della realtà, gli ultimi fotogrammi di Romiti, splendidi e freddi, richiamano l’esperienza che si fa su un treno fermo quando si è affiancati da un altro treno in movimento e per un istante ci si chiede se il moto sia proprio o altrui.
Forse in quell’istante, prolungatosi in tante sedute di una pittura interminabile come interminabile risulta l’analisi freudiana, Romiti ha ripreso il pensiero del suo stesso moto, impedito e mai però da lui sconfessato.
SERGIO ROMITI “Il nulla delle cose”
a cura di Beatrice Buscaroli
GALLERIA FORNI Via Farini, 26/F, Bologna
DI PAOLO ARTE Galleria Falcone e Borsellino, 4A, 40123 Bologna BO
6 – 24 ottobre 2018 Galleria Forni
6 – 5 novembre 2018 Di Paolo Arte
Galleria Forni > 10,30-13,30 e 15-19 – chiuso lunedì e festivi – ingresso libero
Di Paolo Arte > lunedì – sabato 11-13 / 16-20 – ingresso libero