William Congdon. Il gesto alla prova: un compromesso in difesa dell’io

Dal 7 settembre al 23 ottobre la biblioteca Sormani di Milano ospita la mostra “William G. Congdon. Il gesto dell’Io. Inediti (salvati) della Collezione Rapetti”, di cui sono curatore. Verrà esposta per la prima volta una selezione inedita di quadri della collezione di Carlo Rapetti, che intrattenne con l’artista un rapporto di collaborazione durante il periodo trascorso dal pittore nella Bassa milanese, dagli anni Ottanta fino alla morte. Ecco il mio testo critico che introduce il catalogo.

 

Il lavoro della critica

I due quadri del 1985 che aprono l’esposizione degli inediti della Collezione Rapetti, Mare 8 (Riccione) e Sentiero bianco, forniscono gli inizi e la logica della mostra alla Biblioteca Sormani di Milano.

Le opere appartengono al periodo trascorso alla Cascinazza di Gudo Gambaredo (Buccina­sco, Milano), monastero benedettino presso il quale Congdon, nell’autunno 1979, aveva trasferito il suo studio: si tratta di una pro­duzione ispirata prevalentemente dai campi della Bassa milanese, dai soggiorni a Subiaco, a Riccione e ai Buggé (l’abitazione dell’amico Paolo Mangini in Liguria) e dai frequenti viaggi.

È un corpus di opere che non solo arricchisce in varietà e qualità la produzione già cono­sciuta di quegli anni, custodita dalla William G. Congdon Foundation, ma offre l’occasione, a vent’anni dalla morte dell’autore, per una lettura critica che non prescinda dall’atto estetico facendo ricorso a categorie cau­sali estrinseche: nel caso di Congdon, le cui vicende biografiche e pittoriche si presen­tano così strettamente connesse, si potrebbe essere tentati in tal senso1.

Si sa che la materia da cui l’artista trae la propria ispirazione è spesso oscura a lui stesso: lasciare che la forma getti luce sulla biogra­fia e non viceversa, permettendo di recupe­rare qualcosa che finora era in ombra, tale è l’ambizione laica della mostra; anche la ricca documentazione scritta di Congdon sarà da trattare come materia di quell’accadimento che è il quadro2.

I quadri furono sempre ritenuti, dall’autore stesso, probanti oltre la biografia.

 

Da Milano alla Cascinazza

Nel 1966 Congdon apre uno studio a Milano presso San Babila, dove alloggia accanto alla sede di una nuova casa editrice, la Jaca Book, fondata dall’amico Sante Bagnoli; qui conosce Rodolfo Balzarotti, che diverrà suo biografo. Frequenti i viaggi e i soggiorni estivi negli studi di Assisi e del Beato Lorenzo (eremo benedettino di Subiaco), dove avvenivano i ritiri di don Giussani. Con lui l’amico Paolo Mangini, conosciuto ad Assisi nel 1959, infa­ticabile nel sostenere l’attività creativa e pra­tica di Congdon.

A quel periodo, dedicato per lo più ai Croce­fissi, appartengono i Notturni, non certo idil­liaci come le Lune di Subiaco, qualche basi­lica, piazza San Babila, San Lorenzo.

Nelle varie Milano, dai bruni cupi e cinerei, il pigmento mescolato allo smog del davanzale crea una superficie stratificata.

In San Babila 1, 1968, uno stralunato lampione si piega verso il basso come per vedere ciò che sulla strada scorre senza più sembianza. San Lorenzo, 1967, offre una texture argen­tea in cui materia e colore si amalgamano e si espandono in orizzontale, con la libertà della strip di un fumetto, incuranti della monumen­talità del luogo. Milano 0, 1968, è l’occasione di un grottesco notturno dove si parla un ver­nacolo pop di carni rosee sotto i bagliori delle architetture verticali. Mentre New York City (Explosion), 1948 (fig. 1) si consumava nell’im­mediatezza di un pilotato dripping che era un giudizio morale, Milano 0, 1968, inaugura un’economia narrativa volta a dire l’indicibile dell’istante dandogli storia.

Qui Congdon, proprio nel racconto, inizia a elaborare quel simbolico che da sempre accompagnava il suo atto pittorico. Anche per questo Milano ha rappresentato la transi­zione verso il “non luogo” di cui Congdon, il grande viaggiatore, aveva bisogno3.

Nel 1982 l’artista è alla Cascinazza.

 

Stadio crocefisso

Occorre riprendere la tematica del crocefisso, nata con la conversione e in un certo senso mai conclusa.

È vano ribadire una lettura religiosa dei Cro­cefissi. Essi sono piuttosto “rappresentanza” dell’io in quanto scoperta del corpo/psiche. Grazie a loro un vuoto è stato colmato.

È indubitabile che ciò sia avvenuto nell’e­sperienza della conversione religiosa, come è indubitabile il fatto che dopo Assisi l’ico­nografia sacra divenga medium del soggetto Congdon.

Il Crocefisso esce ora dallo “stesso sangue dell’artista”, e non dalla “devozione”:

“C’è da distinguere tra il mio periodo post bat­tesimo quando mi dedicavo al così detto soggetto religioso e gli anni susseguenti quando mi nascevano dei crocefissi, ma non crocefissi fatti per altro scopo che quello del loro nascere da dentro le viscere della mia vita come poteva nascere l’immagine dell’albero. Crocefisso– quadro – e non Crocefisso-oggetto religioso –. Se non dipingo più il Crocefisso è semplice­mente perché non vivo quella dimensione di vita secondo il modo di essere del quadro”4.

Il “soggetto-corpo” è evidente nel crocefisso vaticano o Crocefisso 16, 1960 (fig. 2): un Cri­sto nullificato culmina nella metafora barocca del capo gloriosamente aureo che sembra prendere il volo. Il corpo è spezzato in due, un attimo prima di disperdersi ai quattro punti cardinali, afferrabile soltanto nella metafora teologica della kenosi/gloria.

Il Crocefisso 90, 1974, o della larva – una sagoma emergente dalla materia informe –, pone la questione del Cristo come metafora assoluta, che accompagnerà l’artista fino alla morte.

La dimensione cristologica nei campi della Bassa è infatti inequivocabile: come non riconoscere che le commoventi primavere e i campi si manifestano e si costituiscono su orizzonti, su incroci di verticali e orizzontali? Malgrado tali evidenze un altro processo si viene istruendo (verrebbe da dire con Testori) già al tempo dei Crocefissi: Congdon procede per la via maestra del lapsus ed è la metoni­mia a svelare come il suo pensiero si trovi già per altre strade, più nascoste e più libere della rassicurante apparenza.

Il Crocefisso 46, 1969 (fig. 5), è un Cristo spi­noziano cui non basta la natura intera per nascondere la propria malinconia. Ancora alla malinconia si ascrivono i due Crocefissi 52 e 54 (figg. 3, 4), dove una contratta spato­lata riduce a metonimia del corpo i femminei capelli, tutt’uno con la croce.

Dopo il 1980 Congdon non dipingerà più Cro­cefissi, tranne pochissimi esemplari.

Il Crocefisso 179 (Collezione Rapetti, fig. 6) fa da spartiacque fra il prima e il dopo.

 

Il mio regno per una metonimia (o il convitato di burro)

Spesso il campo metaforico individuabile in Congdon ha dato luogo ad altrettante forme dialettiche: terra/cielo, finito/infinito, peccato/grazia.

Tali letture critiche hanno trovato sostegno in quel processo di spiritualizzazione che ha il suo apice nel Cristo-larva, con il quale Congdon tenta la metafora totale, si potrebbe dire l’icona globale. Un esito pittorico che non aveva futuro apriva a uno scacco critico al quale oggi occorre sottrarsi.

La semplice osservazione delle opere di Cong­don lascia infatti emergere un altro processo linguistico, che chiede di seguire un più sot­tile e individuale ductus.

Si tratta della metonimia, nell’accezione particolare di dire il contenente per il contenuto5. Essa, come una sorta di convitato di burro, si insinua, favorisce e difende il pensiero da quel convitato di pietra ben noto a Congdon che è l’ideale. Inoltre, mentre il simbolo tende a fissare, la metonimia opera un trasferi­mento, per così dire “cambia discorso” e allo stesso tempo rende esplicito ciò che prima era occulto6.

Si veda quell’opera capitale che è Heleanna 1,1972.

Metonimia è la grande spatolata bianca gal­leggiante sul nulla che svela un dramma, ma non ontologico, come “la morte”, bensì pree­sistente e nascosto, riproposto dal naufragio della nave: essa è infatti il simbolo dell’eterna madre che causa e non genera, ma sempre contiene il figlio.

Da questa condizione di “contenuto” l’autore tenterà di liberarsi nel processo di vertica­lizzazione che avverrà nelle successive rap­presentazioni della nave: che il relitto si tra­sformi in Crocefisso (Heleanna 2, 1973, fig. 7) non è perciò da intendere come riproposizione del simbolismo religioso, ma come il tentativo di uscir fuori, di reggersi in piedi.

Liberarsi dal determinismo causale è anche l’ambizione delle opere che preannunciano il periodo della Bassa.

Napoli, carro funebre, 1981 (fig. 8), torna a un tema già trattato anni prima nei quadri dell’India (la grande Madre originaria), ma si sottrae al tragico con ironia: il corteo di mac­chine variopinte ruota allegramente attorno al carro funebre, che diviene metonimica­mente la nera placenta di quel che contiene. Come nell’Heleanna 2 Congdon si difen­deva dal gorgo causale, così in Rimini 1, 1992 (fig. 9), il dilagare del cielo/mare è arrestato dalla verticalizzazione dei capanni colorati. Ganga 1, 1975, pure in mostra, ritrova invece quel “sentimento oceanico” che segnala il per­manere dell’attrazione causale: una vela quasi impercettibile se ne va su un oceano dorato come nel celebre plazer dantesco7.

L’inconscio (il pensiero) è cieco ma ci vede benissimo

Occorre chiarire il “narrare” di Congdon nelle opere degli anni della Bassa, quando accade qualcosa di nuovo e sorprendente8.

Di sicuro i campi della Bassa furono a lungo guardati, osservati, scrutati dall’artista: ma sarebbe falsificante parlare di “poetica dello sguardo”, con l’inevitabile ritorno all’assetto contemplativo e il consueto corteo di enigma­tici stupori, perché si tratta piuttosto di affetto (parola troppo fraintesa) per quanto dell’uni­verso gli era visivamente più prossimo.

L’antico paradigma di Congdon – “È il quadro che dipinge me” – si esprime ora con libertà nuova, in un ritorno della realtà: un dipingere che è pensiero, un vedere che Congdon tiene a definire come “un altro vedere”, quello della mano che disegna senza vedere9.

“Io dipingo dall’inconscio al conscio, cioè un’i­dea si viene lentamente formando nella mente e io la rendo immagine”10.

Cosa c’è di diverso da quell’idea di pittura come forza inconscia che aveva guidato Pol­lock, per il quale l’action era atto garantito dal contatto fisico con la superficie pittorica? Congdon infatti dipingeva sul cavalletto ed ebbe solo sporadici ritorni al dripping dopo New York: il suo fu sempre, comunque, un drip­ping guidato11. Ma a ben vedere, qui emerge un paradosso fecondo e dirimente. Mentre lo “sciamano” Pollock, travestito da “rude cow boy” (Rosenberg) si inoltra nella via mistica, il “monaco” Congdon pensa alla pittura come difesa del proprio pensiero. Il primo rimane fermo a un inconscio inteso come principio universale, il secondo difende l’inconscio come pensiero individuale. In Deep, 1953, l’io di Pollock si annulla in un profondo indefinito di tipo mistico, mentre nelle Basse, dove vige l’idea di rapporto, Congdon conclude la sua vicenda pittorica in modo laico12.

Non dicevano gli action painters che con il gesto ne andava dell’io?

È un susseguirsi, in queste opere, di fatti, ricordi, ritorni del rimosso, condensazioni di esperienze visive: un dipingere simile al sogno a occhi aperti di cui parla Freud. Se le opere della Bassa sono accadimento è perché quei campi sono campi-inconscio, campi-af­fetto, non campi-natura. Anche i diari parlano della soddisfazione nell’affermare la risco­perta di tale legge di “moto / rapporto”.

Gudo è quell’“ombelico del mondo” nel quale avviene l’oggettivazione del sintomo, la vitto­ria sulla rimozione.

Pare questo il senso da dare alla famosa frase di Congdon: “non sono io che vedo, è il quadro che vede me”.

Sommersi e salvati

In quel periodo, a Carlo Rapetti toccò il privi­legio di assistere l’atto creativo, unico testi­mone ammesso nello studio mentre Congdon dipingeva. Il suo fu un ascolto senza pregiu­dizio, frutto di quel talento negativo caro a Madame de Staël, affine a quello dello psico­analista che aiuta il paziente a riconoscere il proprio pensiero.

Distruggere o salvare un quadro dipendeva da molti fattori, fra i quali la reattività dell’ar­tista stesso: sovente un giudizio affrettato o non dato poteva provocare il rifiuto. È il caso di Occhio violetto (1984), salvato con accor­tezza proprio da Rapetti. Significativo anche quanto accadde a un’opera che era stata giudi­cata capitale da Giovanni Testori, in visita allo studio: il quadro fu distrutto dallo stesso Con­gdon (forse disturbato dal riassetto critico che tale valorizzazione sembrava proporre), non appena Testori se ne fu andato. Nella maggior parte dei casi, la decisione di distruggere non era motivata da un giudizio di insufficienza estetica (“i quadri sono figli”), ma dalla fretta di reperire nuovi supporti. Salvare quelle opere fu proprio un caso di quel “talento negativo” per il quale essere grati a Carlo Rapetti.

Due verticalità

Le Basse della Collezione Rapetti confermano che si è aperta una nuova e ricca stagione: la terra è sfiorata con la mano prima ancora che vista, in una condensazione percettiva, quasi un mix di forme assiali che irride la mimesi naturalistica.

Per la critica Rosalind Krauss orizzontale e verticale sono rappresentanza rispettiva­mente dell’assetto pulsionale e dell’imposi­zione culturale e inevitabilmente tendono a collidere13.

Ma si deve riconoscere che nei campi della Bassa l’esito può essere anche altro.

In Estate 18, 1981 (Fondazione Congdon) (fig. 10) il sempiterno fosso-strada scandisce i campi, divisivo e fallico, come se il famoso “zip” di Barnett Newman si fosse trasferito tra queste terre dalla propria originaria astra­zione mito simbolica.

Ma la verticalità complessiva di quest’imma­gine si ribalta in una sorta di mappa aerea: i campi vengono attraversati fino a “precipitare in cielo”, proprio come si potrebbe cadere in un fosso.

Non solo l’impianto orizzontale tende a difen­dersi dall’assalto del verticale, ma riesce nell’impresa: è un accadere di spazi aperti, di giornate, di affetti, di campi lavorati.

Qui Congdon ha ragione anche della lacerante verticalità di Barnett Newman: qui la vita è possibile.

Estate 19, 1981 (fig. 11), pendant di Estate 18, una sobria topografia dove i campi confinano con l’abitato, è il quadro che rappresenta l’e­sposizione: non rapimento ma quotidianità, vissuto, piacere di rapporti. Lontana è l’astra­zione, lontana Venezia con la sua ipnosi, con i raggi di luce in agguato dal totemico campanile. Lontano anche il tempo dell’oro, arcaico rappresentante del simbolico, che in passato Congdon soffiava generosamente sui quadri. In proposito, Carlo Rapetti ricorda come tal­volta l’artista fosse tentato di ritornare a que­sta pratica, restandone quasi sempre insod­disfatto, così da disporre poi la cancellazione dell’opera: Arancio 2, 1988, in mostra, pre­senta ancora una striscia centrale d’oro, ma brunito e spento, come un colore tra gli altri, a essi splendidamente accordato.

Nel già citato Estate 19, l’orizzonte è un abi­tato che interseca i campi, un quadro nel qua­dro, dove una cornice d’alberi sembra celare qualcosa.

Ed è la tau di un irrinunciabile Crocefisso quanto si genera dall’incrocio dei due assi, ma tale potenziale simbolico è tutt’uno con il racconto nel quale è assorbito.

Giacomo B. Contri ravvisa in queste opere una fisica che si libera della “gravità-grevità”, tanto che i quadri potrebbero essere ruotati e osservati in posizione diversa da quella originale14.

Il segno obliquo mette in rapporto ciò che sembrava in opposizione: si vedano Campo G. 2, 1980, un lirico angolo di campi, attra­versato, ingravidato e chiuso da una potente spatolata chiara che regge la grigia cortina degli alberi e del cielo, e in Novembre 1, 1982, monacale geometria di campi tagliati in dia­gonale da una partitura bruna15.

Le pollockiane Finestre (in mostra, Finestra nera, 1987) non si aprono sui campi, ma sull’io, come ebbe a dire Congdon a Rapetti16. Da Primavera 4 e Primavera 1, entrambe del 1980, sovraccariche di materia, irruenza, gestualità, agli Inverni, alla straordinaria serie di piccole opere in mostra, questa pit­tura manifesta ciò che può dire senza cercare troppe conferme in teorie o simboli.

Le due opere sul filo del bianco e nero (Fine d’anno, 1988; Bianco e nero con colore, 1989), i campi-cielo (Campo 2, 1982, Campo, 1992, Cielo, 1992, Campo cielo, 1993 e Cielo campo bosco, 1993); i campi G. (Campo G. piccolo, 1981, Campo G. 9, 1986), i monasteri (Cascinazza con luna, 2, 1992 e Monastero $, 1992), accompagnano i visitatori lungo la scalinata d’onore della biblioteca Sormani17.

Con sapiente ingenuità e gesti rapidi, ricchi di audacia cromatica, Congdon registra neb­bie, fossi, lune e acque, come in un quaderno d’appunti amorosi e spesso rielabora cita­zioni astratte dell’Action Painting.

La consueta tecnica incisoria a pettine non solca più gli ampi spazi: sono gesti grafici lievi che strutturano una materia divenuta familiare.

 

I viaggi

Le opere della Collezione Rapetti ispirate ai viaggi si impongono per la qualità pittorica: Memoria Goa, 1977, Farras Sudan, 1985, Iqui­tos, baracche fiume 2, 1976, Ponte Calcutta $, 1975, Stazione Calcutta, retro di un prece­dente Ponte Calcutta di cui non ci si era mai accorti.

È il caso di ricordare che a Congdon è estra­neo il concetto sociologico di periferia, oggi tanto di moda: le distanze antropologiche non sono certo cancellate nella compassione, ma documentate, in quanto rese prossime dal viaggio.

In Baracche storia di un popolo, Iquitos Perù, 1976, un instabile, istoriato blocco di barac­che di fango è incorniciato da un delicato cro­matismo: una Guernica del quarto mondo, ma anche l’inatteso primo piano di un romanzo familiare. India, Africa, Sudamerica: i templi si confondono con le rocce, le stazioni paiono simulacri di un moto apparente, come se non ci fosse meta per tanta umanità, là dove le dif­ferenze tra i vivi e i morti si fanno effimere. In tanto fango nessun simbolismo a riscat­tare il teatrale nulla, ma prossimità al reale: Congdon integra, in una sorta di Calcutta.0, architetture, larve, veicoli.

Iquitos baracche, fiume, 1976, è l’invenzione di un fiume che scorre senza dare l’idea di moto. Al di sopra, un altro argenteo fiu­me-serpente di baracche ride della propria miseria: le terre che lo circondano non fiori­scono certo come i biblici deserti, ma lo incoronano stando al gioco. Anche laggiù, come nella Bassa, il racconto coglie la novità. Glicini, 1988, opera che conclude la mostra, riporta il viaggiatore a Gudo e pervade di materia affettiva l’antico all over delle città, rendendolo lirico.

 

Conclusioni

La Bassa, il “non luogo”, aveva posto le condi­zioni di un felice operare: nell’arte di Congdon si riduce la necessità di temi sacrali e teatra­lizzazioni compensatorie.

“Togliere è un modo di aggiungere”: la frase tanto citata va intesa anche in tal senso. Solo a questa condizione un “non luogo”, amabile e abitato, può generare materia d’arte, fornire occasioni e trasformare in “non luogo” tutti i luoghi.

Cade la ricerca di sempre nuovi e più esau­stivi simboli, in una gara a cui il mondo non bastava mai e cade anche la pretesa di uno sguardo più penetrante.

I reticoli, i labirinti degli anni cinquanta ritor­nano come strutture di campi, nella nuova veste di realtà partecipata.

Il patetico, temuto mostriciattolo dell’eros, l’oscuro cratere eretto nelle acque di Santorini (dove peraltro sembrava chiedere il permesso di esistere), ritorna ora in quelle piccole imper­tinenti formazioni triangolari che sembrano arpionare qualcosa agli angoli dei campi, espressione del principio del piacere (Santo­rini 9, 1955, e Terra arida 3, 1981) (figg. 12, 13). Con Flaubert, Congdon sembra dire dei suoi putativi mostri (come – absit iniuria verbis – aveva detto dei Crocefissi): “c’est moi”. L’ironia, troppo ignorata dalla critica, contri­buì a oggettivare il sintomo.

Il compromissorio cristocentrismo che, in modo più o meno occulto, regge le composi­zioni di quegli anni, non può nascondere il lavoro compiuto dall’autore in difesa della propria pulsione. Forse, grazie anche alla concezione cattolica di una sanzione indivi­duale, Congdon evitò il pericolo di annullarsi in un principio generale come era accaduto a Pollock.

La sua pittura poté quindi non abdicare alla legge di rapporto, infatti non imboccò la strada dell’icona ma quella della “rappresen­tanza”, arrivando a giudicare, almeno nei fatti, quel misticismo che aveva trasformato gli “irascibili” in una levigata accademia platonica.

La mai abbandonata percezione del proprio dramma consentì a Congdon una consapevole fedeltà o difesa del proprio pensiero (e non era un esito scontato): a una verticalità simbolica si accompagnò una verticalità conquistata come facoltà, simile a quella del bambino che impara a ergersi in piedi.

“Che cosa è l’ordine verticale della creazione? La Croce, in tutte le cose! Il nervo di tutte le cose!”18. Cui va associato: “ll compimento della trasfigurazione sta nel ruotare il quadro via dalla sua naturalistica origine in posizione unicamente sua, della sua eterna origine o fine dell’Altro”19. Ancora una volta, la proposi­zione è cristologica, ma l’accento è sullo scio­gliersi da ogni “naturalistica origine” o causa.

 

Si ringrazia la professoressa Patrizia Pizzirani per il con­tributo alla redazione del testo.

 

1 Per opere e testi di William Congdon si farà riferimento a William Congdon. Atlante dell’opera, vol. I, II, III, Jaca Book, Milano 2005, 2004, 2003.

2 L’idea di quadro come rivelazione fu propria dell’Action Painting: “Ciò che davvero conta è la rivelazione conte­nuta nell’atto; cioè l’immagine sarà il prodotto di una tensione”. Harold Rosenberg, Action painting, Scritti sulla pittura d’azione, Maschietto Editore, Firenze 2006, p. 54.

3 “Ecco! e questo luogo non-luogo, è Gudo Gambaredo nella Lombardia, neanche un nome, eppure mi ha reso pittura, non pittura di luogo, ma pittura senza accidenti esterni, tutto è interno”. William Congdon, Dipingere un luogo, testo inedito, Collezione Rapetti.

4 William Congdon, Negli anni 50 in 60, testo inedito, Collezione Rapetti.

5 “La metonimia consiste in uno spostamento della deno­minazione al di fuori del piano del contenuto concettuale […] Nella concatenazione reale di contenente e contenuto sta la causa per la denominazione del contenuto per mezzo del contenente”. Heinrich Lausberg, Elementi di retorica, Il Mulino, Bologna 1969, p. 123.

6 Per metafora e metonimia come figure del desiderio: Anika Rifflet-Lemaire, Introduzione a J. Lacan, Astrolabio, Roma 1972. Da Auerbach in poi è consuetudine denomi­nare come sermo humilis un linguaggio medio grazie al quale i termini più lontani trovano possibilità di espres­sione facendo cadere lo schematismo dei generi. Questo accomuna metonimia e ironia, di cui Fred Licht, in William Congdon. Atlante dell’opera. cit., vol. III, ha sottolineato la presenza in Congdon.

7 Circa il “sentimento oceanico” vedi S. Freud, Il disagio della civiltà, in S. Freud, Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pgg. 557 segg.

8 Cosa s’intende quando si parla di “narrazione” e di “rac­conto” a proposito di Congdon? Non certo la proposta emo­zionale della post verità che oggi impera dell’editoria ai social, bensì il rinvenire ed enumerare le cose così come vengono in mente senza cancellarne alcuna: cioè qualcosa che si avvicina al discorso analitico, con cui ha in comune anche il lapsus.

9 William Congdon, La memoria nell’occhio dellàrtista e La nebbia, testi inediti, Collezione Rapetti.

10 William Congdon, testo inedito, Collezione Rapetti.

11 “Ciò che non si trova mai in una tela di Pollock […] sono quelle sgocciolature verticali che indicano che il luogo originario della tela sia stato l’asse verticale del caval­letto”, Rosalind Krauss, Horizontality, in Yve Alaine Bloy, Rosalind Krauss, L’informe, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 96.

12 Rosenberg, Action painting cit. Su questo tema si veda Marcelin Pleynet, Pollock, Jung e Picasso, in Jackson Pollock, a cura di Daniel Abadie, catalogo della mostra (Parigi, Centre Georges Pompidou, Musée National d’Art Moderne), Paris 1982.

13 Rosalind Krauss lega il processo percettivo della Gestalt all’analisi lacaniana. Il “nome del Padre” di Lacan, primo atto divisorio e impositivo, viene visto dall’autrice in ana­logia alla striscia denominata Zip di Barnett Newman. Krauss, Horizontality cit. p. 85 segg. Per la “logica” pit­torica che soggiace a queste opere – tra le più famose Cfithedra di Newman – si veda Barbara Rose, American art since 1900. A critical history, a cura di Friederick A. Prager, New York 1967, pp. 189 e segg.

14 Giacomo B. Contri, William Grosvenor Congdon, in S. Freud, G. Contri, Hanno pensato, Edizioni Pendragon, Bologna 2013, pp. 145-152.

15 Anche il “segno obliquo” partecipa di questo tenta­tivo dell’autore di liberarsi da nevrotici dualismi, Contri, William Grosvenor Congdon cit.

16 Comunicazione di Carlo Rapetti.

17 Il titolo Campo G. trae origine dall’amicizia dell’artista con Giorgio, monaco alla Cascinazza.

18 Congdon, Negli anni 50 in 60 cit.

19 William Congdon, Girare il quadro per vederlo, testo inedito, Collezione Rapetti.

1 pensiero su “William Congdon. Il gesto alla prova: un compromesso in difesa dell’io”

  1. Un artista che ha una fretta indiavolata di mettere giù un’idea che potrebbe andarsene, ha varie possibilità se gli mancano tele o tavolette vergini .Può usare dei retro di vecchi dipinti oppure andare sopra opere che giudica di minor valore rispetto a quella che farà; sempre che tale dipinto sia abbastanza secco.Nel caso di Bill questi due espedienti erano difficilmente praticabili.Nel primo ,se la masonite era già stata intelaiata , il telaio avrebbe ostacolato i l libero movimento della spatola e nel secondo gli spessori delle paste ugualmente sarebbero state di ostacolo. Quindi per Bill era necessario se non cancellava in tempo l’opera , avere un rifornimento continuo di tavole e tavolette intelaiate o meno. Risulta quindi poco plausibile la motivazione addotta all’esistenza di questi dipinti. Come insegna la logica se fossero stati distrutti non ci sarebbero pìù e sopra di essi ci sarebbe un altro dipinto più bello o più brutto.
    Probabilmente Bill affidava alcune tavolette dipinte che giudicava di minor valore o nullo a qualcuno che le smaltisse o le cancellasse con una fresa e ordinava al falegname tavolette nuove (la masonite costa pochissimo casomai è il telaio che può costare ,qualche euro). Il giudizio di Bill era comunque messo in causa anche se lui poteva essere indifferente alla finale destinazione di queste sue opere da lui giudicate minori non degne di rimanere. Una mostra di tali lavori destinati alla distruzione può essere interessante solo come studio filologico delle varianti cancellate di una poesia di Leopardi .

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